Aumentano i progetti, dentro e fuori i confini italiani, che vedono a collaborazione tra aziende e istituti penitenziari. Alla base una collaborazione che spesso ha a che fare anche con il recupero di materiali di scarto che prendono nuova vita. L’economia circolare entra negli istituti penitenziari italiani con varie iniziative che promuovono l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro attraverso le cooperative sociali e le aziende, in un’osmosi virtuosa tra profit e no profit. Spesso alla base l’uso di materiali che da scarto prendono nuova vita in prodotti artigianali e questo permette di creare una rete etica, educativa, terapeutica, sostenibile anche dal punto di vista ambientale mirando alla ricostruzione della dignità e dell’autostima delle persone private della libertà.
Apprendendo specifiche competenze tecniche e il know-how di una vera professione, i detenuti rinascono a nuova vita preparando il proprio ritorno in società. Ricucire la dignità Ricucire la dignità è il fil rouge che troviamo all’incontro organizzato dal Comune di Milano, lo scorso 7 novembre, con il Consorzio Vialeideimille (costituito da cooperative sociali che impiegano detenuti negli istituti penitenziari di San Vittore, Opera e Bollate), organizzato per favorire collaborazione e sviluppo dei laboratori di sartoria carcerari con le aziende e con le sartorie sociali al di fuori delle mura. Apprendendo il know-how di una vera professione artigianale, le detenute e i detenuti confezionano con creatività borse, astucci, accessori in tessuto, pelle o ecopelle, ma soprattutto percepiscono uno stipendio, imparano il senso di responsabilità, si accorgono di essere utili, di essere persone.
Valore aggiunto al lavoro sartoriale sta nell’attenzione posta all’economia circolare: la quasi totalità dei materiali utilizzati in questi laboratori viene dagli scarti di lavorazione o dalle rimanenze di magazzino delle aziende tessili, che li donano in grande quantità. Il contro, in questo processo sembra essere che l’onere dello smaltimento di tali scarti ricada sugli utilizzatori ultimi, cioè gli istituti penitenziari, ma nei laboratori di sartoria si insegna ai detenuti anche a ridurre al minimo gli sprechi, creando altro valore. Le testimonianze dirette Made in carcere è ormai un’impresa con un brand riconosciuto e rappresenta un modello di economia. È partito come laboratorio di economia ristretta nato 17 anni fa in Puglia dall’iniziativa di Luciana Delle Donne, ex manager finanziaria, ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica, per diffondere la filosofia della seconda opportunità per le detenute. “Prima i carcerati erano chiusi dentro le mura, dimenticati in luoghi di degrado” dice. Ma con i laboratori di sartoria la bellezza è entrata in carcere, trasformandolo in luogo di colore e vita. “La mission di Made in carcere è rigenerare tutto quello che si può” afferma Delle Donne: i materiali tessili di scarto che arrivano direttamente dalle aziende, non finiscono solo nelle creazioni sartoriali delle detenute, ma le eccedenze – e sono tante – vengono spedite alle sartorie sociali fuori dal carcere. Anche bottoni e cerniere hanno una seconda possibilità, in una metafora etica sotto gli occhi delle detenute. Luca Padova ci presenta Gomito a Gomito, laboratorio di sartoria nella sezione femminile della Casa Circondariale Dozza di Bologna. Anche qui troviamo lo stesso modello imprenditoriale: “le persone detenute sono completamente consapevoli del valore ambientale, sociale e culturale di un modello di sartoria artigianale che segue i principi della moda circolare.
Creiamo pezzi unici proprio per utilizzare il più possibile – in ottica di upcycling – ogni materiale recuperato“. Conosciamo poi la Cooperativa Catena in Movimento, organizzazione di volontariato fondata da Cristian Loor Loor, quando era detenuto. Ci racconta di quando, per il congresso nazionale della Cgil tenutosi a Milano nel 2022, sono state commissionate al suo laboratorio di sartoria nel carcere di Milano-Bollate 500 borse a tracolla confezionate con pezze di tessuto recuperato, e del loro successo proprio perché costituivano pezzi unici. “Con grande sorpresa, tutti gli ospiti del congresso hanno gradito. Noi tutti eravamo lì a consegnare le borse (…) perché la gente capisse da dove vengono“, in un’ennesima interazione virtuosa tra il mondo del lavoro e i detenuti. Racconta infine Marco Maria Mazio, fondatore nel 2019 della startup Palingen, che opera con i detenuti del carcere di Pozzuoli in una sartoria sostenibile, in modalità B2b. “Elevare la dignità delle persone tramite il lavoro e l’insegnamento dell’arte della sartoria italiana in maniera innovativa” è la mission. E il risultato si traduce nelle commesse da parte di importanti aziende del settore tra cui, recentemente, una di Dubai, che su accessori maschili come le cravatte, ha voluto puntare sul made in Napoli e sulla tradizione italiana.
Pubblicato Da: www.greenplanner.it